Il progetto DIVERSE - MoDellIzzazione, Valutazioni e proposte per incrEmentare la Resilienza del territorio agricolo Emiliano-romagnolo - coordinato da Giovanni Dinelli, professore di Agronomia e coltivazioni erbacee del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari e condotto in collaborazione con il gruppo di ricerca del Prof. Alberto Montanari del Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali - ha come obiettivo quello di studiare l’evoluzione dei territori agricoli della regione, profondamente cambiati nel tempo, per proporre modelli attraverso i quali aumentarne la resilienza in modo da contrastare il cambiamento climatico e gli eventi atmosferici sempre più frequenti, come quello che ha colpito l’Emilia-Romagna a maggio del 2023.
Il territorio agricolo regionale ha subito profonde trasformazioni a partire dal Secondo Dopoguerra, quando in modo massiccio è stata introdotta la chimica nell’agricoltura. Allora, a scopo bellico, l’industria aveva migliorato il processo di estrazione del fosfato e la capacità di sintesi dell’azoto: due elementi chiave per fabbricare bombe, di cui gli arsenali erano pieni. Inoltre, durante la guerra si era brevettato il primo erbicida per distruggere le risaie giapponesi e, durante quelle operazioni, ci si rese conto che, alle giuste dosi, queste sostanze in modo selettivo eliminavano solo le infestanti e non le specie coltivate.
“Fino a prima di quel momento storico i nostri campi erano ancora strutturati sul modello introdotto dai Romani, quando, non esistendo i pesticidi, la produzione doveva essere dotata di tutta una serie di servizi ecologici a supporto. Ad esempio, se c’era bisogno di controllare gli afidi occorreva che le coccinelle svolgessero questo compito, e a loro volta esse arrivavano solo se si piantavano, intorno ai campi, degli alberi in grado di allevarle durante il loro stadio larvale. L’introduzione della chimica ha cambiato completamente il paradigma e si è passati ad un’agricoltura industriale che permettesse di produrre di più, obiettivo sicuramente raggiunto, ma di cui oggi si scontano anche gli effetti negativi”, osserva il professor Giovanni Dinelli.
Confrontando foto storiche con scatti più attuali delle aree agricole della Pianura Padana si osserva che negli anni 50’ del passato secolo, le aziende agricole erano ancora strutturate con il metodo della centuriazione romana: campi stretti, caratterizzati da una grande diversità di colture, mai più larghi di 30 metri, e lunghi al massimo 120. Ai lati si trovavano le cosiddette ‘scoline’, in grado di far drenare l’acqua; tra un campo e l’altro venivano piantati alberi, talvolta addirittura in doppia fila: vite maritata o alberi da frutta.
“Questa struttura detta anche ‘piantata bolognese’ era molto comune in gran parte del territorio pianeggiante della nostra Regione. Questo territorio, oggi monotono, era un vero e proprio giardino: all’epoca si potevano contare fino ad oltre 100 alberi ad alto fusto per ettaro, quando ora se ne possono contare al massimo uno o due. Siamo poi riusciti a calcolare che un ettaro di terreno aveva una capacità di invaso di oltre 300 metri cubi di acqua e questa caratteristica proteggeva dagli allagamenti; la capacità di resilienza di questi territori era completamente diversa da quella di oggi, in cui un ettaro coltivato ha attualmente una capacità di invaso spesso inferiore a 50 metri cubi di acqua”, spiega Dinelli.
Gli alberi poi con le loro radici assicuravano la stabilità del terreno oltre a favorire il drenaggio delle acque in eccesso. Alcuni scatti risalenti agli anni 70’ del passato secolo mostrano una fase intermedia, nella quale si nota che i campi sono già più grandi. All’epoca, infatti, gli agricoltori ricevevano dei contributi per eliminare alberi e fossi a quel punto considerati come “tare produttive”, poiché l’obiettivo principale era quello di aumentare la produzione.
Oggi la situazione climatica è completamente cambiata. La Pianura Padana è una specie di “catino” su cui si scatenano eventi estremi, una volta sconosciuti. Il terreno stesso è diverso: prima, infatti, si fertilizzava con il letame rendendo il suolo più ricco di sostanze organiche e quindi maggiormente filtrante. Inoltre, non usando mezzi pesanti, il terreno era meno compatto.
Le prove future a cui il progetto DIVERSE lavorerà si concentreranno proprio sulla capacità filtrante di terreni così diversi oltre che sulla valutazione comparativa della loro capacità di invaso e quindi di resistere ad eventi estremi. Concentrandosi in particolare nella zona di Russi, colpita duramente lo scorso anno dall’alluvione verrà creato un modello matematico in grado di simulare eventi estremi. Si potrà dunque osservare come avrebbe reagito il territorio allora e come reagirebbe (e reagisce) oggi: i risultati saranno messi a disposizione delle istituzioni nell’ottica di supportare scientificamente azioni virtuose di politica territoriale.
* Nell’immagine viene messo a confronto lo stesso territorio agricolo che si trova nei pressi di Faenza, nel 1930 ( a sinistra) e oggi ( a destra). È evidente che in passato il territorio era suddiviso in campi medio-piccoli (non oltre 0.6-0.7 ettari), ognuno circondato da filari di alberi e di siepi, e dalla rete di scolo per l’acqua. A destra si nota chiaramente l’effetto dell’industrializzazione delle attività agricole: i campi sono pochi, di grandi dimensioni (oltre i 20 ettari), sono privi di alberi e non sono dotati di rete di scolo delle acque.