La porta del suo studio è sempre spalancata per chiunque tra i suoi collaboratori voglia parlargli. È così da 60 anni, ovvero da quando Silviero Sansavini - professore emerito, già Ordinario di Frutticoltura dal 1971 al 2008 e direttore dell’Istituto poi Dipartimento di Colture Arboree dell’Università di Bologna - ha iniziato a lavorare all’Università di Bologna.
Di recente è uscito il suo Memorie di un arboricoltore, Viaggio nella Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna 1960-2022 che, a partire dai ricordi del professore, ricostruisce anche un lungo pezzo di storia dell’Ateneo. Dopo Vita universitaria 1960-2020, il volume pubblicato qualche tempo prima, in questo secondo excursus Sansavini ha voluto far emergere la dimensione umana che ha attraversato quegli anni, rappresentata dalle decine di persone che in Dipartimento gli sono state vicine, in qualche modo eredi dei suoi studi: “Ho voluto raccontare loro, talvolta anche con ironia, per restituire quell’affetto che mi ha portato fino a qui”, scandisce.
“Qui” significa 90 anni di età e una serie ricchissima di pubblicazioni, riconoscimenti e cariche raggiunte nei tanti anni di attività, che solo ufficialmente si è conclusa con la pensione tra il 2007 e il 2008.
Uno dei momenti cruciali, su cui Sansavini si sofferma, è quello che sancisce il passaggio “dall’università di élite a quella di massa”: una trasformazione non da poco, culminata nei movimenti del ’68 e del ’77, anni di scontri duri, in cui la scrivania del professore, allora direttore, “è stata più volte ribaltata durante le contestazioni”. Ma Sansavini ha sempre creduto che mantenere saldi legami all’interno del Dipartimento fosse la chiave giusta per traghettare l’Università verso un futuro diverso da quello che era stato fino ad allora.
“Non potevo schierarmi dalla parte degli studenti per il ruolo che ricoprivo e non voglio apparire irriconoscente verso le persone che hanno creduto in me e mi hanno scelto perché potessi fare la carriera che ho intrapreso, ma i tempi dovevano cambiare: prima di quel momento, bisogna dirlo, c’era scarso rispetto per la persona, per i collaboratori, per gli studenti”.
Sansavini ricorda un particolare curioso, nel libro, quello della “valigia diplomatica”: “Era una valigetta in cui venivano custoditi tutti i verbali delle riunioni della Facoltà, le cui chiavi erano in possesso di solo undici persone a capo degli undici istituti allora attivi”.
Altri tempi, insomma: “Io mi trovavo in mezzo, tra gli studenti e i baroni, giovane professore, caso raro per l’epoca – racconta il professore – Enrico Baldini, il mio maestro, mi aveva scelto dandomi la possibilità di emergere: io ero senz’altro ambizioso, mi sembrava un privilegio essere un assistente e questo mi permetteva di non vivere come umiliazioni gesti che era usuale compiere, come passare la penna ai propri professori”.
Sansavini veniva da una famiglia di coltivatori di frutteti e ha vissuto con grande riconoscenza l’opportunità che gli era stata data, pur senza condividere certe modalità. Su un punto non ha dubbi: “Almeno la metà di ciò che sono diventato è merito degli studenti che ho incontrato lungo il mio percorso, che volevano studiare e laurearsi con me, forse perché ero il più giovane; questo loro desiderio di emergere mi obbligava a continuare a studiare, per tenere il passo”.
Ed è stato grazie a questa inclinazione che Sansavini, “nato” agronomo, è diventato anche fisiologo e poi biotecnologo: “Grazie alla spinta degli studenti”, ripete. Di certo fu un precursore, per certi aspetti: nel ’69 andò a studiare negli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio che la Nato aveva istituito in collaborazione con il Cnr; questa esperienza gli permise di ottenere più avanti, dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, l’onorificenza dei Benemeriti.
Sansavini parla di ricerca, di Università, di collaboratori, e la politica dice di volerla lasciare fuori. Ma fuori non resta del tutto mentre racconta di quando si ritrovò a capeggiare una rete europea di scienziati che studiavano ciò che poi sarebbe diventato la cisgenesi. “L’Italia decise di non autorizzarne la sperimentazione”. Fu una delle non poche cecità che talvolta la politica ha dimostrato di avere nei confronti della scienza e che ha causato spesso l’interruzione delle carriere di vari studiosi: “Io sono riuscito a navigare in mezzo a questi eventi, in alcuni casi mi sono stati tolti dei fondi ma non mi sono mai dato per perso e ne ho trovati altri”, puntualizza il professore.
Sansavini si sofferma anche sulle sue passioni umanistiche, che hanno senz’altro contribuito a fare di lui uno scienziato completo: “Provenivo da studi agrari e quando ho cominciato a frequentare certi ambienti culturali mi sono reso conto che mi mancava qualcosa, gli studi umanistici; e allora nel fine settimana mi immergevo in letture che potessero colmare quel vuoto e frequentavo intellettuali di grande spessore come Emilio Pasquini prima e Ivano Dionigi poi”. Così è nato il Sansavini collaboratore di alcune riviste letterarie e scrittore: “Immergendomi nella cultura umanistica ho imparato ad ascoltare l’altro e a pensare oltre la tecnica, doti sempre più rare in un’epoca come quella che stiamo vivendo, dove regna la propaganda e dove è sempre più difficile aprirsi al dibattito e al confronto, senza pregiudiziali schieramenti”.
Nonostante questa constatazione resta fiducioso lo sguardo del professore verso il futuro perché, sebbene i tempi siano duri, i giovani per Sansavini dimostrano di avere grandi capacità innate che fanno ben sperare per un domani migliore.